222222 Saddest Music in the World is a project conceived in October 2009 as a consequence of a massive land expropriation imposed by the state (Lombardy region) to the land owners and land inhabitants.
The expropriation is a long and painful bureaucratic process that not just takes away forever the natural home of plants animals and humans but also modifies and destroys in a irreversible way the native landscape with all its particular and unique geological aspects. In this transitory environment a group of artists realized a specific project as a manifestation of dissent, as a reaction to an unwanted situation. All the gestures are a “mise en scene” of the relation between man and his environment, the natural and the artificial merge into a series of visions. Each art practice generates ideas and dreams, raises new possibilities for confrontation and the understanding of humans.

THE SADDEST MUSIC IN THE WORLD e' un luogo temporaneo fatto di ambienti suburbani e situazioni relazionali periferiche. Uno spazio ibrido dove il mix di pratiche epressive si inserisce nei luoghi della devastante politica del territorio.

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LA PROSPETTIVA ANTROPOLOGICA DEL PAESAGGIO:


"Mi tocca cioè in qualche modo sottolineare che la
nozione stessa di paesaggio va relativizzata, in quanto essa è fortemente interna alla cultura
occidentale e si lega innanzitutto ad una esperienza visuale, visiva. Sicuramente, affinché ci sia
paesaggio, è necessario che ci sia una realtà oggettiva, un sito, un luogo, che indubbiamente
preesiste allo sguardo, ma c’è necessità anche di un soggetto che guarda, di uno sguardo
osservatore. Questo significa che la centralità che il paesaggio ha assunto nella cultura occidentale è
direttamente legata alla centralità che l’esperienza visuale, la percezione visiva, ha in essa. Anche
qui mi preme ribadire che la percezione visiva è la percezione più importante, non in assoluto, non
della specie umana in quanto specie, ma di quella cospicua parte della specie umana che sono le
civiltà dotate di scrittura. Viceversa, per altre civiltà non dotate di scrittura ci possono essere altri
sensi che hanno centralità nell’esperienza, nella percezione, come l’udito, l’odorato, ecc., e quindi
ci sono culture per le quali è addirittura improprio parlare di paesaggio. Per esempio, i Kaluli, che
sono una popolazione della Nuova Guinea, hanno un rapporto con l’ambiente (e parlo volutamente
di rapporto con l’ambiente e non con il paesaggio, perché non potremmo parlare di paesaggio) che
non si struttura a partire dall’esperienza visuale bensì dall’udito. I Kaluli conoscono e riconoscono
il loro ambiente a partire dai suoni prodotti dalla natura, innanzitutto i suoni delle molte specie
animali che popolano il loro ambiente naturale, i suoni della vegetazione, dell’acqua, e a partire da
questi suoni costruiscono anche la scansione temporale della giornata e delle stagioni, quindi hanno
un rapporto con l’ambiente completamente diverso dal nostro. Tutto ciò allo scopo di chiarire come
la nozione di paesaggio vada innanzitutto relativizzata.
Come già è emerso dagli interventi e dalla discussione di ieri, il paesaggio è oggetto di studio molto
complesso, è quello che un sociologo francese ha definito un frutto sociale totale, un qualcosa in cui
si mescolano molto strettamente le variabili economiche, storiche, culturali più propriamente
simboliche, e diventa anche molto difficile separarle, individuarle singolarmente, per stabilire in
qualche modo quali siano le variabili dipendenti e quali quelle indipendenti. Ma, dal punto di vista
antropologico, il paesaggio è soprattutto un contenitore di simboli, un insieme di segni, quindi di
significanti e di significati. Chiaramente i significati sono dati dall’azione dell’uomo, delle
collettività, dei gruppi. Questi significati, che noi diamo al paesaggio, concorrono in qualche modo
a risignificare, a radicare, a fondare le nostre identità culturali, concorrono a mantenerle, a
conservarle, ma, in taluni casi, anche a trasformarle.
Per evidenziare il ruolo culturale del paesaggio, vorrei citarvi un episodio, a mio avviso bello ed
interessante, realmente accaduto ad un grande studioso, un grande meridionalista, studioso del
Mezzogiorno e della magia nel Mezzogiorno d’Italia, che è Ernesto De Martino. Egli racconta
questo episodio in una sua opera, pubblicata postuma, frutto di una ricerca condotta in Calabria da
lui personalmente e dal suo gruppo di collaboratori. Orbene, il De Martino racconta che un giorno,
aggirandosi con il suo gruppo in auto per raggiungere una certa località, smarrisce la strada e non
riesce più a ritrovare la giusta direzione (teniamo presente che siamo alla fine degli anni Cinquanta
e ci troviamo per lo più in presenza di strade bianche e tortuose). Ai bordi della strada c’è un
contadino al quale vengono chieste informazioni sul percorso da seguire e, poiché le sue spiegazioni
non sono molto chiare, viene invitato a salire in macchina per far da guida al gruppo. Il contadino
accetta a malincuore, comunque sale in macchina, ma dopo un po’ i ricercatori si rendono conto
che, a mano a mano che l’auto si allontana dal punto dove è stato fatto salire a bordo, il contadino
comincia a stare male fisicamente, ad avere agitazione psico-motoria e sudorazione fino a
raggiungere un vero e proprio stato di angoscia. L’angoscia del contadino calabrese è cresciuta a
mano a mano che, allontanandosi l’auto, ha visto scomparire dall’orizzonte visuale il campanile di
Marcellinara, del suo paese natio. Rendendosi conto del suo malessere, i ricercatori decidono di
riaccompagnare il contadino fino al punto in cui è stato prelevato. Nel percorso di ritorno questa
angoscia crescente si placa, il contadino si calma e, arrivato a destinazione, si catapulta fuori
dall’auto e finalmente si rilassa, perché finalmente ha ritrovato il campanile di Marcellinara.
Nella lettura che dell’episodio darà poi Ernesto De Martino, il contadino è stato colpito da una vera
e propria crisi della presenza, che, per intenderci, è una crisi esistenziale massima, in preda alla
quale non si riesce più a stare ed agire nel mondo. Il contadino calabrese è stato investito da questa
crisi esistenziale e non è un caso che l’elemento simbolico di confine tra le proprie certezze ed il
caos esistenziale sia stato un elemento del paesaggio, il campanile del paese natio.
Dicevamo, il paesaggio è un oggetto complesso, perché composto da una serie di variabili
difficilmente districabili, distinguibili fra loro, ma è anche, come è stato già detto ieri, un oggetto
costantemente dinamico, soggetto a processi di sempre più enorme e veloce trasformazione. Già ieri
è stato abbondantemente sottolineato come porzioni sempre più ampie del nostro paesaggio rurale
siano state, nel secolo scorso, profondamente trasformate, prima dalla costruzione di edifici protoindustriali
e poi dalla realizzazione di vere e proprie aree industriali. Oggi viviamo una fase di
deindustrializzazione e questi paesaggi industriali diventano paesaggi di archeologia industriale, le
cui destinazioni d’uso sono molto diverse da quelle originarie, e qui vorrei indurre una riflessione
sul rapporto tra trasformazioni del paesaggio e trasformazioni culturali.
Prendendo spunto da quanto sta accadendo vicino Napoli, a Bagnoli per l’esattezza, mi piace citare
quello che secondo me è un bellissimo romanzo di Ermanno Rea, da poco pubblicato, dal titolo “La
dismissione”, in cui si parla proprio della dismissione dello stabilimento Italsider di Bagnoli, in cui
si vede benissimo come la trasformazione esistenziale del protagonista, un operaio dell’Italsider
appunto, vada di pari passo con la trasformazione del paesaggio industriale. A mano a mano che lo
stabilimento viene smantellato, fatto a pezzi e venduto alla Cina, c’è la trasformazione esistenziale
del protagonista e più in generale, come è lecito supporre, dell’intera classe operaia che vede sparire
quello che era stato il luogo, il fulcro, della propria identità, soprattutto della propria identità di
classe.
Ci sono tutta una serie di situazioni in cui le trasformazioni del paesaggio non sono, per così dire,
auto-determinate, ma determinate dall’esterno, da cause di forza maggiore, e a questo proposito
vorrei citare una ricerca condotta su un’area che, dal punto di vista dei residenti, pure ha subito
grosse trasformazioni del paesaggio. Mi riferisco alla città di Pozzuoli, in provincia di Napoli,
inserita nell’area flegrea che è paesaggisticamente molto bella dal punto di vista naturale, ma è
anche carica di storia. Pozzuoli è una città che è investita da un fenomeno particolare, che è il
bradisismo, di innalzamento ed abbassamento del suolo. E’ un fenomeno sismico, è un fenomeno
antichissimo, c’è sempre stato, e la città ha sempre vissuto un rapporto molto stretto tra bradisismo
e paesaggio, particolarmente quella parte del paesaggio costituita dai monumenti storici, tanto è
vero che gli innalzamenti ed i successivi abbassamenti del suolo sono testimoniati dalle tracce
lasciate sulle colonne del cosiddetto tempio di Serapide, che è in realtà il macellum, dalla
sedimentazione del mare, nel suo alzarsi ed abbassarsi lungo queste colonne. A seguito di una crisi
bradisismica particolarmente acuta, nel 1983, l’intero centro storico di Pozzuoli è stato evacuato e
circa ventimila persone sono state costrette a trasferirsi nel quartiere di nuova edificazione di
Monteruscello. Chiaramente, uno spostamento così massiccio ed anche così repentino, in cui gli
abitanti, per cause di forza maggiore, non hanno potuto scegliere il sito dove andare e le
caratteristiche delle abitazioni in cui sono stati collocati, ha provocato tutta una serie di problemi dal
punto di vista antropologico. I risultati di una ricerca condotta sul campo da un gruppo napoletano
di ricercatori coordinato da Amalia Signorelli hanno evidenziato che, per gli abitanti di Pozzuoli, la
crisi esistenziale derivante dall’evento bradisismico era legata alla rottura del rapporto con il
paesaggio. Gli abitanti di Pozzuoli hanno raccontato ai ricercatori che la loro difficoltà stava proprio
nell’aver perso il contatto con i monumenti urbani, il Serapeo, l’anfiteatro, che sono propri dei
luoghi, non soltanto dei sistemi di orientamento, una vera e propria mappa cognitiva del territorio,
ma anche dei simboli, ancora una volta in termini demartiniani, di certezza esistenziale. Per gli
abitanti di Pozzuoli, secondo quanto essi stessi hanno dichiarato, quei monumenti sono la
testimonianza vivente della possibilità di superare le crisi bradisismiche: il fatto stesso che abbiano
resistito al bradisismo nel corso dei secoli, come testimoniano con la loro presenza, rappresenta per
i puteolani il simbolo stesso della possibilità di superarlo in termini esistenziali.
Al fine di ribadire ulteriormente il fatto che le trasformazioni del paesaggio non volute possano poi
incidere in termini culturali sulle persone che ne sono coinvolte, vorrei citare un altro caso, oggetto
questo di una mia ricerca, condotta in un’area non molto lontana da qui, nell’area di Melfi, dove dal
1994 è in funzione questa grandissima fabbrica della FIAT Auto che si chiama SATA. E’ stata
un’operazione di portata molto vasta in cui la trasformazione del paesaggio è stata, per così dire,
solo la punta dell’iceberg, nel senso che poi si è trattato ovviamente di una trasformazione
economica di vastissime proporzioni, con un incidenza notevole sulla vita locale, i cui tempi e
modi vengono in un certo senso ad essere scanditi dai ritmi della fabbrica.
A mio avviso, il caso di Melfi può portare alla luce un altro aspetto che mi sembra sia importante
tenere in considerazione quando si parla di paesaggio, cioè come esso possa diventare posta in
gioco, oggetto di conflitto, tra strategie di scala globale, vale a dire strategie, interessi, scelte che
vengono operate ad una scala che è appunto globale, esterna alle comunità sulle quali queste
strategie vengono a ricadere, e strategie locali, nel senso proprio di interessi, di valori a scala locale.
Con la costruzione della fabbrica di Melfi c’è stata dunque questa grossa trasformazione e va detto
che essa è sorta, oltre che velocemente, anche senza grosse opposizioni, come era logico che fosse,
essendo portatrice di qualcosa come oltre novemila posti di lavoro, per cui il gigante FIAT Auto
poteva legittimamente aspettarsi che non vi fossero voci di dissenso. E, infatti, non ve ne furono e lo
stesso ceto politico melfitano ha avuto nella circostanza un atteggiamento acritico di accettazione,
nel senso che alcuni consiglieri comunali mi hanno con grande chiarezza detto che non c’è stata, né
da parte comunale né da parte regionale, alcuna valutazione dell’impatto ambientale derivante dalla
costruzione di questo enorme stabilimento che ha trasformato completamente un’area prima
destinata all’agricoltura.
A distanza di quattro anni, invece, nel 1998, il paesaggio è diventato il pretesto di una spinta
oppositiva molto vasta quando l’azienda ha presentato il progetto per un impianto di termodistruzione
per lo smaltimento dei rifiuti (inceneritore battezzato con il nome abbastanza simbolico
ed evocativo di Fenice), di grandissime dimensioni, che prevedeva lo smaltimento annuo di
sessantamila tonnellate di rifiuti, provenienti, fra l’altro, non solo dallo stabilimento melfitano, ma
anche da altri stabilimenti FIAT del Mezzogiorno. A Melfi si è sviluppato un movimento di
opposizione molto vasto che ha tirato in ballo tutta una serie di motivazioni contrarie, e non solo,
innanzitutto, la tutela del paesaggio e dell’ambiente, ma anche tante altre che avrebbero potuto
obiettivamente essere sollevate anche prima, come ad esempio la situazione dei lavoratori
all’interno dell’azienda e la totale carenza infrastrutturale che ha accompagnato la nascita dello
stabilimento, a cominciare dalle strade che vi conducono, che comunque sono strade in pessimo
stato su cui ancora oggi si registra un elevato numero di incidenti, anche mortali, che coinvolgono
proprio gli operai che vanno e vengono dai vari turni lavorativi.
Orbene, tutta questa opposizione che, ricordo, non c’era stata al momento della progettazione e
della realizzazione dello stabilimento, ha trovato ancora una volta espressione nella tutela del
paesaggio e dell’ambiente. Si sono mescolate variabili molto complesse, si è costituito un comitato
cittadino che ha interloquito con la Regione, devo dire con risultati tutto sommato inconsistenti,
come è ovvio che fosse, in quanto il termo-distruttore Fenice è comunque andato in funzione, anche
perché è abbastanza logico che uno stabilimento di quelle dimensioni abbia un impianto per lo
smaltimento dei rifiuti. Questo per dire che ci sono tante situazioni in cui il paesaggio diventa posta
in gioco, espressione da un lato di quelle forze interne che hanno subito delle decisioni, delle scelte,
che non sono state fatte da loro, e dall’altro lato in qualche modo anche strumento di pressione.
Io vi ho parlato del caso di Melfi e del suo inceneritore perché vi ho lavorato personalmente, ma
anche le vicende di questi giorni, che riguardano Scanzano Jonico, si prestano efficacemente ad
esemplificare questo utilizzo del paesaggio come contenitore di spinte e di contrapposizioni tra
globale e locale.
Con ciò concludo sostanzialmente il mio intervento e non posso che ancora una volta riallacciarmi a
quanto diceva il prof. Ferriolo e ribadire la specificità dell’approccio antropologico, la necessità
cioè di far partecipare i locali, di sentire i loro punti di vista, una volta si diceva il punto di vista del
nativo. Mi sembra assolutamente degno di rilievo il fatto che la Convenzione Europea del
Paesaggio abbia sottolineato in uno dei suoi punti proprio come finalità quella di, cito testualmente,
“valutare i paesaggi individuati tenendo conto dei valori specifici che sono loro attribuiti dai
soggetti e dalle popolazioni interessate”. Concordo col prof. Ferriolo, mi sembra un principio
rivoluzionario e ho voglia di dire: “Mettiamolo in atto!”. Prima di agire, prima di intervenire sul
paesaggio, chiediamoci quale senso e quale valore hanno i paesaggi per le popolazioni che sono i
soggetti protagonisti, i residenti da un lato, i fruitori dall’altro, tenendo presente che molto spesso i
residenti ed i fruitori non hanno visioni univoche del paesaggio. Molte grazie.
(Cetti Serbelloni) Grazie a lei, professoressa, del suo intervento, del quale vorrei sottolineare alcuni
concetti che mi sembrano molto importanti. Lei ha ben evidenziato come per l’uomo la percezione
del paesaggio sia soprattutto visiva, cosa che a sua volta un altro dei relatori aveva già sottolineato,
ed a questo proposito mi viene in mente un riferimento storico.
Nel 1922, quando uscì la prima legge di tutela del paesaggio, si tenne un convegno a Capri, al quale
intervenne il Marinetti che, da quel futurista che era, sostenne che il paesaggio dovesse essere
percepito con tutti i sensi, mettendoci dentro non solo l’olfatto, ad esempio, ma inventando quella
che fu definita la proposta del tatticismo, cioè di dare delle cose da toccare, come anche la proposta
di portare la gente al cinema per fargli scorrere delle bande fra le dita, in modo che la percezione
tattile venisse ad aggiungersi a quella visiva, arricchendola. Forse Marinetti voleva riportarsi un po’
anche al contatto con gli altri esseri viventi che, come lei ha sottolineato, hanno una percezione
diversa, e credo che qualche volta sarebbe bene se stessimo attenti anche a queste altre forme di
percezione.
Altro punto importante, quello con cui lei ha concluso, è l’invito a pensarci prima. Il paesaggio è
qui che invoca la nostra attenzione, un’attenzione che è culturale e mentale, per passare dal regime
dell’emergenza a quello della previsione e della prevenzione, all’essere responsabili di quello che si
fa, e quindi il richiamo, che faceva prima il prof. Venturi, alla responsabilità non solo singola e
collettiva, ma nei rapporti delle collettività e dei singoli tra loro.
Un’altra cosa che mi ha interessato molto è stata questa sua sottolineatura sull’angoscia, perché
sono convinto e sostengo che l’angoscia dell’uomo moderno sia dovuta proprio alla perdita della
sicurezza. Noi dobbiamo abituarci a vivere coscientemente la responsabilità di accettazione del
dubbio e della probabilità. Noi, nonostante tutto, detestiamo le regole, le norme precise, ma ci
ricorriamo quando siamo in regime di insicurezza. Oggi che ci hanno tagliato questi figheroni,
l’angoscia è davanti a noi in tutta la sua ingerenza e, direi, in tutta la sua tragicità che, forse anche
nei riguardi di temi come il paesaggio, emerge proprio quando si sappia leggere quello che succede
dietro."

LA PROSPETTIVA ANTROPOLOGICA DEL PAESAGGIO:
DINAMISMO E IBRIDAZIONE CULTURALE
Prof.essa FULVIA D’ALOISIO
II Università di Napoli – Caserta
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Domenica 12 Dicembre 2010 dall'imbrunire dalle 16:30 in poi

SOGNO ELETTRICO BLACKEST RAINBOW 2010

• noise from Luca Massolin e Maurizio Abate

performance live, rito di passaggio per elaborare e digerire quello che il cuore e la mente riescono con fatica ad accettare.

frequenze elettroacustiche e i suoni immersivi si dilatano nel tempo tra i rami corpi vivi contro le trasformazioni inarrestabili, le devastazioni veloci, le alienazioni tutte.

suoni per abbandonarsi alla sera per ritornare alla terra.

vino caldo

•Cascina M.te Grappa via Trento Robecchetto con Induno (Mi)


+ Golden Cup
è il progetto solista di Luca Massolin. Nato in Italia, attualmente residente in Portogallo, Luca genera i suoi soundscapes con strumenti a corda (chitarra, basso, mandolino), voce, e strumentazione analogica. Affascinato dai lavori dei pionieri della musica elettronica, le sue influenze vanno dal rock chitarristico degli anni '70 alle dilatazioni della musica cosmica, passando per il minimalismo e il free-jazz. Luca ha suonato in più di 20 paesi in Europa, Medio-Oriente, USA, condividendo studio e palchi con artisti come:

Sonic Youth, Takeisha Kosugi, John paul jones, Sachiko, The Merce Cunningham DanceCompany, Stefan Neville. Ha pubblicato per etichette internazionali tra le quali: Blackest Rainbow, Digitalis, Qbico, Peasant Magik, Utmarken, Holidays.

Dal 2002 gestisce l'etichetta ‘8mm records’, che promuove con edizioni limitate musica free, impro, underground proveniente da tutto il mondo.



Luca Massolin: chitarra elettrica, sitar elettrico, mandolino elettrico, tastiere.

Jeremie Sauvage: basso e chitarra elettrica

Mathieu Tielly: percussioni

Maurizio Abate: tanpura, harmonium e chitarra elettrica.


www.goldencup.tk

www.8mmrecs.com

222222 THE SADDEST MUSIC IN THE WORLD

e' un progetto a cura di Serena Porrati e Francesca Tollardo
per ulterioni informazioni manda una mail a serena.porrati@gmail.com
francesca.sky@libero.it